Bisessualità e ricerca: uno studio raccoglie le storie di bisessualità in Italia – Parte II

Aurelio Castro è dottore di ricerca (Ph.D.) in “Scienze Sociali: Interazioni, Comunicazione e Costruzioni Culturali”. Nella sua tesi dottorale si è occupato di bisessualità e maschilità, un argomento di cui ha parlato con noi in un’intervista. Aurelio ci ha raccontato come le bisessualità sono studiate nella ricerca accademica e ha condiviso le storie di vita raccolte nelle interviste parte del suo lavoro di tesi.

 

Clicca qui per leggere la prima parte dell’intervista.

A livello accademico che tipo di contesto hai trovato?

C’è un ritorno di interesse, alcuni gruppi di ricerca stanno riprendendo vecchi dati per reinterpretarli o nuovi questionari sulla bifobia. Sono studi sempre minoritari e relativi solo ad alcuni gruppi di ricerca distribuiti su più discipline, dalla sociologia alla psicologia.

E all”estero qual è la situazione?

Anche in quel caso sono studi minoritari, ma dagli anni Duemila il Journal of Bisexuality ha creato un punto di riferimento internazionale in ottica interdisciplinare su vari aspetti delle bisessualità. La nascita di una rivista specialistica sugli studi sulla bisessualità ha favorito a livello internazionale il modo in cui approcciarci e studiare le bisessualità, tanto che ci sono delle linee guida, per fare ricerca e scrivere sulle bisessualità, fornite dal Journal of Bisexuality

Ci sono altri strumenti utili per avvicinarsi al tema in modo consapevole?

 Un altro strumento importante per fare il punto, generico e trasversale alle questioni B+, è il Bisexuality Report del 2012, che ha iniziato a portare avanti l’idea di usare l’ombrello B+ come termine inclusivo per tutte le persone attratte da più di un genere, nelle varie forme, tutte valide, e dare quindi una dimensione trasversale, chiarendo anche il forte contenuto culturale degli orientamenti sessuali. Gli orientamenti sessuali sono un costrutto occidentale, non rappresentano tutte le nazioni e società, è un concetto che abbiamo importato noi, spesso in maniera violenta in società che avevano orientamenti più fluidi e poi costretti a incasellarsi in una visione coloniale, prevalentemente anglofona, dell’orientamento etero-omo, escludendo la bisessualità. Il Bisexuality Report è stato anche tradotto in Italiano dall’associazione Lieviti, storica associazione di Verona, ed è presente sulle pagine di Wikipink. È un mezzo dato alla società, da questo testo le persone possono saperne di più su vari ambiti, dal lavoro alla salute, alle identità, ma anche la scuola, l’educazione, il coming out, eccetera. Sono strumenti e risorse di base che si spera tutte le persone che fanno ricerca o attivismo abbiano letto prima ancora di iniziare a fare ricerca sulle bisessualità, così da seguire un sapere informato all’interno della comunità stessa e avere delle linee guida su come fare ricerca su un gruppo minoritario, anche se non per numero, ma per come è percepito e trattato.

E per quanto riguarda la bisessualità nel discorso pubblico?

Bisogna rimarcarlo e renderla visibile per evitare la cancellazione quando si è in sicurezza per poterlo fare, anche all’interno delle ricerche stesse. Per esempio, nella ricerca psicologico-sociale quando andiamo a chiedere alle persone nei questionari o durante gli esperimenti il loro orientamento è rarissimo che si veda una terza opzione o più opzioni nell’orientamento sessuale. Ogni tanto qualche persona mette ‘Altro’, ma altro non vuol dire nulla, significa: so che ci sono altri orientamenti (e lo stesso vale per il genere) ma per me non è abbastanza importante andarmi a informare o scrivere quali sono questi termini ombrello che possono includere altri generi e orientamenti. Chiariamoci, se io chiedo il genere di una persona e metto uomo, donna e altro, non sono inclusivo, non sto rappresentando una persona, perché in quell’Altro c’è tutto e non c’è niente. Un termine ombrello come ‘genere non binario’ non costa niente, ma in quel caso stai riconoscendo che c’è qualcos’altro e facendo ricerca riconosci che altre persone incontreranno quel termine e possono chiedersi se c’è altro oltre il binarismo.

A volte non c’è nemmeno il contentino di scrivere Altro, ma solo uomo o donna…

Sì, però soprattutto da una persona che fa ricerca su queste tematiche o ricerca dove il genere o l’orientamento di una persona è rilevante, ci si aspetta che sappia come misurarlo e come rispettare le identità altrui.

Hai trovato molti casi di persone che fanno ricerca su questi temi e utilizzano semplicemente Altro?

Accade spesso, alcune colleghe e colleghi sono molto disposti ad ascoltare e confrontarsi su questo punto di vista, ma spesso viene visto con perplessità, motivandola con una questione statistica, perché non sanno come accorpare quei dati. Il punto è che non dovrebbero essere accorpati, il mondo della ricerca ha cancellato sistematicamente gli orientamenti non esclusivi o i generi non binari, rafforzando l’idea di un mondo binario per cui siamo uomini o donne, etero o omo, e quel che non rientra in queste categorie viene classificato come rumore. Sappiamo che molto spesso venivano presi i dati delle persone bisessuali e accorpati a quelli etero o omosessuali, a seconda del genere dei partecipanti: gli uomini bisex partecipanti erano messi con gli uomini gay e le donne bisex con le donne etero.

Come mai?

Prima di tutto queste scelte danno una forte cancellazione della bisessualità come orientamento non considerandola vera, considerandola una fase verso una completa omosessualità per gli uomini o per le donne come una cosa più fluida, una curiosità, o a volte come un feticcio per il piacere maschile. Questo si rispecchia in come venivano accorpati i dati ed è legato anche a un altro fattore: per molto tempo la fluidità sessuale femminile ha portato diverse persone a chiedersi se le donne avessero un orientamento sessuale vero e proprio o fossero fluide. Ci sono stati dei periodi in cui nella ricerca si negava che le donne avessero un orientamento sessuale in sé e che gli uomini bisex esistessero del tutto. È un doppio standard molto forte: da un lato si legittima l’idea che la sessualità femminile sia incomprensibile o una sessualità senza punti fermi, dall’altro lato invece per gli uomini bisex c’è stata una cancellazione sul fatto che potessero esserlo davvero.

Da cosa deriva questo fenomeno secondo te?

C’entra la psicologia. Degli studi psicologici in passato, negli anni Duemila, hanno fanno uscire una ricerca sull’eccitazione fisiologica degli uomini bisex. In realtà non erano uomini bisex, ma uomini gay che avevano avuto relazioni anche con donne. Il gruppo di ricerca di tale Rieger nel 2005 cerca quindi di dimostrare che le attrazioni bisex non ci fossero usando misure fisiologiche. In effetti gli uomini da lui definiti bisessuali, ma che non erano tali, provavano più attrazione per gli uomini. Da lì è iniziata una grande campagna mediatica secondo cui gli uomini erano etero, gay o stavano mentendo. La cancellazione della bisessualità maschile è stata molto rafforzata da questi studi psicologici, e per molto tempo. Solo nel 2012, con un altro studio fisiologico di Rosenthal e collaboratori, è stato invece dimostrato che, reclutando persone bisessuali e che si dicono bisessuali, quindi non gay in relazioni passate o attuali con donne, le persone bisessuali provano attrazione verso più di un genere.

C’era bisogno di uno studio fisiologico?

No, bastano le narrazioni delle persone e bastano le lotte e le politiche bisex che vengono fatte dagli anni Settanta in poi. Abbiamo una grande storia di bisexual politics e di studi sulla bisessualità in maniera critica, per cui non c’era bisogno di studi fisiologici, che però vengono fatti e bisogna anche ribattere in maniera adeguata. Questa tendenza a voler dimostrare che la bisessualità esiste o non esiste con studi fisiologici è una cosa che la psicologia ancora non si è tolta, ed è un problema, perché le scienze psicologiche e sociali in questo modo contribuiscono alla cancellazione.

Perché quindi occuparsi di bisessualità e di bisessualità maschili nel tuo caso?

Per fornire delle buone pratiche e degli studi critici che mostrino invece come le bisessualità non solo esistono, ma questo non sta alla ricerca dimostrarlo perché sta alle persone stesse, ci sono le comunità e ci sono sempre state. La ricerca dovrebbe avere la responsabilità e il ruolo di fornire strumenti e resoconti di ciò che è stato, fornire le conoscenze per supportare le persone bisex, i loro bisogni e le loro necessità, in modo che chi fa parte della sfera pubblica e dell’attivismo possa dare supporto e sostegno alla B in LGBT. Da lì il mio interesse per fare una ricerca di dottorato sulle bisessualità in Italia, poi mi sono soffermato su quelle maschili perché sono sistematicamente tra le più cancellate, tanto che pensavo non avrei trovato molti partecipanti.

Ci sono altre ricerche sul tema in Italia?

La ricerca che ho condotto in Italia non è la prima sulle bisessualità, né la prima tesi di dottorato. La prima risale al 2008, di Michele Breveglieri, di Sociologia, Padova. Ora si è aggiunta anche la tesi di Nicole Braida sul tema, a Scienze Sociali a Milano. Sono grandi riferimenti per gli studi sulla bisessualità in Italia perché possiamo parlarne e studiare questo grande aspetto. Come altre ricerche molto importanti sullo stress-minoritario, la bifobia o il coming-out.

Per chiudere, quali sono le prossime linee di ricerca, i prossimi progetti?

Continuare con gli studi sulle bisessualità e su come si intreccino con il genere e altri assi di discriminazione e comprendere come ridurre i pregiudizi. Quindi andare in giro e fare formazione alle associazioni su come ragionare su questi aspetti e sulla bifobia, anche in relazione alla vita politica delle persone. Fare ricerca è un atto politico, come rendere disponibili o meno le nostre ricerche, quello che facciamo e le discussioni sui diritti. La ricerca deve, non può, deve, dare un contributo e informare quelle che sono le scelte decisionali e l’informazione, per esempio nelle leggi, dove bisognerebbe parlare anche di bifobia, e dare strumenti per capire come sostenere le persone negli spazi di attivismo, nell’accesso ai servizi e nella tutela della salute. Quindi far riflettere e portare contributi su questi aspetti, come ricerca e come attivismo per una comunità unita.

 

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