Perché gli uomini bi non fanno coming out sul post di lavoro? Questa è la domanda che si pone l’autore di questo post uscito sul “The Sidney Morning Herald” lo scorso mese di dicembre.
Inutile dire come questa analisi sia vicina anche alla realtà italiana di tutti i giorni.
Ecco perché questo articolo vuole essere il primo di una brevissima serie in cui parleremo delle nostre esperienze di persone bi, out o meno, sul posto di lavoro. A questo proposito invitiamo i nostri lettori a raccontarci, in forma assolutamente anonima, le loro esperienze in merito per capire come le persone bisessuali italiane vivono il loro lavoro, come vengono accolte, o se l’essere out è ancora un traguardo lontanissimo da raggiungere in molti ambienti lavorativi.
L’aspetto ancora più interessante di questo post, che prende spunto da una recente ricerca uscita sul “Journal of Vocational Behaviour” in cui si parla del perché gli uomini bisessuali raramente riescano ad essere out sul loro posto di lavoro senza dover affrontare serie conseguenze, è che non è scritto da una persona bi ma da un giornalista apertamente gay. Un alleato, dunque, che si chiede: se le persone bisessuali costituiscono la maggior parte della percentuale dell’acronimo LGBT, perché non ho mai avuto un collega bisessuale? Scopriamo i motivi insieme:
Traduzione di Anna; Revisione di Francesca
Non passa settimana senza che i media non citino qualche fatto relativo a uomini gay, lesbiche o uomini e donne trans. La stessa cosa succede in ambito accademico. Ci sono stati numerosissimi studi su ciascuna delle lettere dell’acronimo LGBTIQ salvo, pare, che per la lettera B, quella dei bisessuali. La cosa che rende questo fatto ancora più bizzarro è che i bisessuali compongono la “fetta” più ampia all’interno della minoranza LGBT e, nonostante tutto, rimangono il gruppo più invisibile e oggetto di meno ricerche fra tutti. Questi sono i presupposti che hanno poi dato adito a uno studio che è stato pubblicato sul “Journal of Vocational Behaviour”.
I ricercatori si sono concentrati sulle esperienze che i lavoratori bisessuali vivono (o forse sarebbe meglio dire “patiscono”?) sul posto di lavoro. Questo aspetto ha incuriosito gli scienziati anche in ricerche precedenti, che hanno rivelato come la percentuale di persone gay o lesbiche “out” sul post di lavoro sia di sei volte maggiore rispetto a quella dei loro colleghi bisessuali. Secondo i dati, inoltre, i bisessuali soffrono di più alti livelli di stress, depressione, attacchi di panico, comportamento compulsivo e abuso di sostanze.
In questo recente studio, condosso su più di 200 persone, si dimostra come il pregiudizio verso le persone bi sia fortemente radicato anche tra gli uomini gay e le lesbiche. Si tratta di un dato sorprendente, perché significa che non sono solo gli eterosessuali a discriminare ma anche altre minoranze. In altre parole, coloro che sono stati discriminati discriminano a loro volta. Questo atteggiamento si concentra particolarmente verso gli uomini bisessuali, più ancora che verso le donne.
Gli studiosi ritengono che ciò accada perché, oggigiorno, si tende ad accettare di più il fatto che la sessualità delle donne possa essere fluida e che possa muoversi liberamente attraverso uno spettro durante tutta la durata della vita. Di contro, invece, “agli uomini viene negata questa libertà e ci si aspetta che siano attratti esclusivamente da donne o da uomini. Non c’è una zona di mezzo. Gli uomini bisessuali sono visti come uomini gay che non hanno ancora fatto coming out”.
Questo fenomeno, chiamato formalmente “vagabondaggio culturale” (cultural homelessness), affligge coloro che soffrono di pregiudizio e isolamento nel caso in cui vengano rifiutati sia dalla maggioranza che dalla minoranza. Non c’è praticamente alcun luogo in cui si sentano davvero a casa.
Questa nuova ricerca va però oltre il semplice pregiudizio e include anche la non più sorprendente notizia che gli uomini bisessuali sono meno propensi a rivelare la propria sessualità sul posto di lavoro e quindi costretti molto di più a sopportare situazioni ad alto livello di stress psicologico, bere con maggior frequenza e fare un uso eccessivo di sigarette e marijuana.
Queste conseguenze si presentano a causa della dilagante necessità dell’essere umano di categorizzare. Le persone o sono nere o bianche, maschi o femmine, giovani o vecchi e, ovviamente, gay o etero. Incontrare qualcuno che non rientra in questa dicotomia è troppo difficile da affrontare e fa confondere molte persone, in particolare quando incontrano un uomo bisessuale e quindi lo percepiscono come un elemento “indeciso, poco autentico e non degno di fiducia”.
Per questo motivo, i ricercatori ritengono che ci siano serie conseguenze a livello lavorativo, in particolare quando si parla di scelta dei turni all’interno dello staff e delle possibilità di fare carriera. Poiché devono affrontare tale malessere sul posto di lavoro, è presumibile che i dipendenti bisessuali saltino da un lavoro all’altro cercando una via di uscita da quei capi che “premiano un comportamento stereotipicamente mascolino dei propri dipendenti”.
Al di là delle ovvie implicazioni dell’ultima frase, e cioè che la denigrazione della “non mascolinità” sul luogo di lavoro debba smettere di esistere, si raccomanda anche ai datori di lavoro di creare spazi dedicati ai propri dipendenti bisessuali nell’ambito della “diversity policy” aziendale, ad esempio associazioni dei dipendenti, programmi di tutoraggio e iniziative di varia natura. Si tratta di una categoria che al momento è fortemente trascurata.
Come persona apertamente gay sul posto di lavoro da oltre venti anni, questa ricerca mi ha costretto a pensare ai colleghi bisessuali che ho avuto, sia nel passato che attualmente. Non mi è venuto in mente nessuno. Ci sono state tantissime persone gay, lesbiche, trans e queer ma nessun bisessuale dichiarato. Se pensiamo ai numeri citati in precedenza, che dimostrano che i bisessuali sono lo spicchio più ampio dell’acronimo LGBTIQ, è un dato che fa riflettere.