È probabile che, leggendo questa frase tra qualche anno, io mi vergogni anche di averla pensata ma adesso è inutile far finta che non sia così: scoprirsi trans* in età matura, con una vita già ben definita, delle scelte già fatte e un tuo preciso ruolo nel mondo, fa schifo.
Capisco l’orgoglio di averne preso atto, il senso di liberazione, il trovare, magari, la risposta a qualche domanda che stava lì, appesa o nascosta, ma la realtà dei fatti, almeno per me, è che è come aver preso la pillola rossa di Morpheus quando invece volevi quella blu. Come essere stato costretto, da te stesso, dalla vita, a una verità che premeva per uscire e che, come dicono i saggi “rende liberi”, ma rende anche stanchi, esausti, arrabbiati, in un periodo della vita, tra lavoro e famiglia, in cui hai sempre meno energie, in cui sei convinto di aver già combattuto le tue battaglie e sei ben lieto di lasciare spazio ad altri.
E invece eccoci qua. Ti guardi allo specchio, dopo anni dalla “scoperta”, che cerchi, tassello per tassello, di far diventare il tuo corpo esterno come lo senti da dentro; quasi ma non del tutto. Perché, anche se circondati dalle persone giuste e dalla migliore famiglia del mondo, dobbiamo comunque camminare in punta di piedi per non far sussultare troppo le loro vite, ma anche non incuriosirli troppo per evitare domande a cui non abbiamo nessuna voglia di rispondere. E, almeno in questo paese, entri in un mondo di regole, di divieti, di oppressioni, di impossibilità ad avere davvero quello che vuoi e di molto molto altro.
Partiamo con ordine, ordine sparso ovviamente.
Gli sguardi. Quando non corrispondi all’immagine che la società si aspetta e quando questo succede quando non sei più giovane (il paternalistico “è giovane! È una fase. I giovani devono essere strani, devono osare” non funziona più) devi abituarti agli sguardi. Sempre. Anche nella metropoli di 10 milioni di abitanti. Non avrai mai più la possibilità di essere anonimo, di non spiccare, di essere lasciato in pace. Ci sono vari tipi e livelli di sguardo:
- quello incuriosito e innocuo
- quello affascinato ma violento (l’oggettivizzazione è enorme. Tutti si chiedono cosa hai nelle mutande e come e con chi fai sesso. Il tuo essere persona è in secondo piano)
- quello insicuro della persona LGBT+ ancora non out che vorrebbe dirti qualcosa ma non lo fa
- quelli di “cosa cazzo sei? Ma non ti vergogni?”
- quelli di silenzioso disprezzo. Di questa categoria fanno parte tanti tipi di persone diverse: dall’integralista religioso, alla signora di mezza età, dall’autoproclamato maschio alfa con la pancia da birra all’uomo che fondamentalmente vorrebbe tastarti. Per guarirti.
Devi obbligatoriamente imparare a sostenere gli sguardi o a non farci caso. Non ci sono altre soluzioni. La tentazione di rispondere “che cazzo guardi?” sarà sempre grande ma, se ne abbiamo voglia e la situazione è abbastanza tranquilla, possiamo rispondere allo stesso modo con lo sguardo. Altrimenti ignorarli, per me, è la cosa migliore. L’effetto collaterale può essere quello di diventare distratti verso il mondo, tenere sempre lo sguardo basso, pensare ad altro. Che può essere una salvezza ma anche un gran peccato. Sta a noi decidere se ne vale la pena o farci la scorza e tenere lo sguardo sempre alto.
Sono tantissimi gli aspetti della tua esistenza che cambieranno, che tu lo voglia o meno. Alcuni cambiamenti saranno liberatori, altri meno, alcuni ti lasceranno incredulo, altri saranno inevitabili e dovrai accettarli come si devono accettare i capelli bianchi e le rughe: con serenità. Altrimenti è la fine. E non lo dico così per dire: è davvero la fine. La vita diventa uno strazio per te e per le persone che ami e che ti amano, la rabbia ti acceca e non vedi soluzione. Il suicidio diventa un’opzione molto concreta, anche quando hai una famiglia amorevole e dei figli. Una analisi americana del 2019 (su dati raccolti nel 2015) che studia le esperienze di persone transgender adulte rivela che il 98% degli intervistati ha preso in seria considerazione il suicidio durante quell’anno e di questi il 51% ha concretamente provato a togliersi la vita. Una percentuale X, non analizzata, ci è effettivamente riuscita.
Questo vuol dire che il 98% delle persone transgender adulte intervistate ha pensato come potesse essere liberatoria una corda attorno al collo, ne ha assaporato l’idea per giorni, settimane, mesi; di questi un 51% l’ha comprata, toccata e messa effettivamente attorno al collo prima di cambiare idea o di essere fermata o “salvata” e un’altra percentuale X non più intervistabile non è mai stata salvata e ora non esiste più. Questo perché quando i dati parlano di suicidio ci si dimentica che parliamo di esseri umani e non di numeri. Di esseri umani che per arrivare a preferire la morte alla vita hanno sofferto molto e a lungo.
Scoprirsi trans* in età matura con già una famiglia e dei figli, un preciso giro di amicizie consolidate, un passato da persona cis molto diversa fisicamente ed emotivamente spesso vuol dire ricominciare tutto da capo….
* Questi articoli sono pensieri personali di Luka, 43 anni, persona bisessuale, transgender e genitore. Descrivono esclusivamente le singole esperienze della persona e non vogliono essere una guida né rappresentare l’esperienza di tutte le persone transgender adulte. Rubrica in 6 parti.