Io parto dal presupposto che ci siano persone a cui vale la pena spiegare e altre no. Frega un cazzo se il salumiere pensa che io sia lesbica ma non capisce se sono mezzo maschio o femmina femmina.
Questo discorso però va bellamente a farsi benedire quando bisogna affrontare il posto di lavoro.
Nel mio caso ho cambiato lavoro da meno di tre anni, lavoro in una struttura pubblica (il posto fisso!) dove si studia e si fa ricerca. Quindi i miei colleghi non mi hanno mai visto “come ero prima” e non possono fare odiosi confronti. Se da una parte lo statuto dell’azienda ci tutela e abbiamo un comitato per l’inclusività che lavora benino, dall’altra la realtà di tutti i giorni è ben diversa. Io ho avuto la fortuna di capitare in un ufficio con poche persone e molto rispettose. Semplicemente si fanno da soli le domande ma non chiedono. Rispettano la privacy dell’altro. Mai sentito niente di omofobo, bifobico o transfobico.
Questo atteggiamento mi è sembrato ideale per parecchio tempo. Un don’t ask don’t tell che lì per lì sembrava meglio di domande alle quali non volevo rispondere. Ma quando ci passi 8 ore al giorno, quindi un’enorme fetta della tua giornata da sveglio, i colleghi diventano una seconda famiglia, volente o nolente. Non si può non parlare mai, non rispondere ad una battuta, rifiutarsi di affrontare qualsiasi cosa riguardi se stessi. Si può essere molto riservati, non partecipare alle uscite, alzarsi e andarsene quando è l’ora di timbrare, ma restare totalmente indifferenti a ciò che ti circonda è impossibile. Il non essere out come bisessuale e come persona trans* comincia a pesare ogni giorno di più fino a quando la sensazione è schiacciante e quelle 8 ore diventano un peso che va oltre il lavoro in sé.
Se il collega mi guarda e fa una battuta su una bella ragazza (perché sotto sotto lui sa o pensa di sapere) voglio farla anch’io. Voglio unirmi a lui, ridacchiare senza vergognarmi, voglio quella complicità che un maschio cis si prenderebbe senza problemi. Se la collega che divide il mondo in maschi e femmine continua a dire “questa è una cosa da femmina e questa è da maschio” voglio poter essere libero di dire: è una cazzata, prendendo come esempio me stesso (che è una cazzata glielo dico comunque). Una cazzata dannosa, tra l’altro. Voglio essere libero di spiegare cos’è essere trans* per me. E quindi torniamo al discorso di prima: il coming out. I colleghi rientrano tra le persone a cui vale la pena spiegare? In teoria, nel mio caso specifico, no, visto che non ho rapporti personali che vadano oltre quelle 8 ore. Ma in pratica quelle ore passate lì possono diventare un incubo se non fai coming out. Un coming out per meri motivi di serenità professionale, niente di personale babe. Sono solo affari. Ma affari che ti cambiano la giornata, ti rendono meno rabbioso, meno frustrato.
Una piccola nota a margine che potrebbe aprire un’enorme parentesi: alcuni colleghi di altri uffici sono convinti che io abbia una moglie. Quando parlo della mia famiglia e di mio marito (mi piace anche il willy, sì, oltre che amare profondamente una persona che casualmente ne ha uno) restano sorpresi e delusi.
Questo perché, per il fragile mondo degli etero cis, c’è un modo giusto e uno sbagliato di essere froci. Il fatto che abbia un marito cisgender mi rende meno valido ai loro occhi e questa cosa mi fa ridere. A squarciagola, onestamente. Anche perché alcune di quelle colleghe deluse hanno oggettivamente delle belle tette. E dispiace sempre alzare gli occhi al cielo davanti a persone con le belle tette. Ammettiamolo.
L’intimità. Non penserete mica che sia tutto rose e fiori vero?…
* Questi articoli sono pensieri personali di Luka, 43 anni, persona bisessuale, transgender e genitore. Descrivono esclusivamente le singole esperienze della persona e non vogliono essere una guida né rappresentare l’esperienza di tutte le persone transgender adulte. Rubrica in 6 parti.