Anni fa, quando ancora non conoscevo bene la famiglia di mio marito e la mia lingua non era ancora così tagliente, eravamo a casa di mio cognato, stravaccati sul divano a guardare una partita di rugby. Io, il mio compagno (attuale marito), mio cognato e i miei due nipoti maschi grandi e grossi. Io e mio marito ci siamo conosciuti allo stadio del rugby. Ero lì per scrivere un articolo anche se fino a quel momento mi ero interessata solo al pugilato e lui, da ex giocatore nazionale e poi arbitro, si è offerto generosamente di spiegarmi le regole. Il regolamento è molto lungo perché dopo 12 anni siamo ancora qui che ne parliamo.
Insomma quel giorno ero lì che mi godevo una bella partita in mezzo a persone “che ne capiscono”, fra una birra e due chiacchiere ed ero presa, coinvolta, divertita, piena di entusiasmo.
Mia cognata, una donna straordinaria, ci tengo a precisarlo, mi vede e mi chiama in cucina. Io mi alzo e lei mi invita a sedermi lì con lei e mia nipote e a sfogliare il suo quaderno di cartamodelli. Un quaderno enorme, pieno di schizzi di modelli anni ’80 da lei creati. Spalline e “dammi una lametta che mi taglio le vene” a go go.
Io, per non offenderla, ho accettato, con un occhio ed un orecchio ancora alla partita che mi stavo perdendo, e siamo rimaste lì per più di un’ora. La partita è finita e io ero sempre lì a guardare i disegni dei vestiti sul quaderno. Perché mi ha fatto questo? Mi sono chiesta. Perché non mi ha lasciata in santa pace a godermi il mio sport preferito? Perché, in tutta onestà, pensava mi annoiassi e che preferissi un’attività “da donna”. L’ha fatto per me, per propormi un’alternativa che riteneva fosse più adatta e più interessante per me, in quanto donna.
Tutto questo preambolo per descrivere in poche righe quello che per molte e molti di noi è il disagio di una vita.
Sono quella che quando le chiedono “ti piace questo piatto? Ti passo la ricetta?” risponde “preferirei di no ma forse a mio marito interessa”, quella che ai mercatini della scuola dei figli contribuisce con libri usati e soldi perché “non le piace fare le cose creative”, quella che quando “mamme oggi facciamo i lavoretti con i vostri bimbi!” si mette le mani nei capelli e trova mille scuse, quella che durante il terzo tempo “ma che bella torta! L’hai fatta tu?” risponde “no, vedi quell’uomo grande e grosso che esce dal campo da rugby coperto di fango? L’ha fatta lui”.
Se prima ero solo io a non sentirmi adeguata (“e vestiti da femmina!” ” e smettila di essere così diretta, sembri uno scaricatore di porto!”) una volta “accoppiata”, questi stereotipi si sono riversati anche sulla mia famiglia e sui ruoli che io e mio marito avremmo dovuto ricoprire. Il fatto che le cose stiano cambiando, molto molto lentamente, non è ancora una garanzia e quando ci rapportiamo con l’esterno, per quanto il livello di comprensione sia aumentato e sia molto più facile trovare situazioni simili alla nostra, il livello di disagio quando ci mostriamo esattamente per quello che siamo è comunque palpabile.
Sì perché mio marito è il mio esatto opposto, ovviamente, visto che a lui piace cucinare (come piace a mio padre e a mio fratello, del resto), cucire, stirare e riesce a dirti quale detersivo va meglio per quel tipo di superficie. Il suo sogno sarebbe quello di poter partorire, piacere che gli lascerei tranquillamente, (e qui si apre l’altra parentesi della mamma degenere “con poca sensibilità e scarso istinto materno”. Scusate se non esalto al 100% la poesia di 9 mesi passati ad ingrassare come un bove e vomitare e se ammetto che non c’è mai stata differenza tra me e lui nella gestione dei figli, sin dai primi mesi della loro vita) e di fare lo “stay-at-home dad” o “il casalingo”. Assurdo per un maschio etero cisgender vero? Ma che gli passerà mai per la testa!
Cos’ha a che fare la percezione di genere con la bisessualità? In pratica? Assolutamente niente. Come non c’entra con qualsiasi altro orientamento sessuale. Sappiamo bene che le cose che amiamo fare non hanno niente a che vedere con il nostro orientamento. Ma in teoria ha a che fare tutto perché in una società binaria ci sono cose “da maschi” e cose “da femmine” (e per esteso cose “da mamme” e cose “da papà”) e, data la difficoltà di andare oltre questi schemi, il sapere che sono bisessuale gli ha dato “la risposta”: è “mezzo maschio” ecco perché è così. Ecco perché preferisco il rugby ai cartamodelli. Non perché forse forse mi piace il rugby, no; è perché sono mezzo uomo. E in questi momenti quanto vorrei che non conoscessero il mio orientamento! Perché potrei ancora giustificare i miei gusti come gusti e non come il risultato di un bizzarro esperimento genetico.
Sono certa che, se fossi nata uomo o se fossi lesbica (anzi, come dicono alcuni “completamente lesbica”) il mio atteggiamento sarebbe stato giustificato. Perché ad un uomo è ancora concesso di non amare la cucina e non voler stirare. Ad una lesbica è concesso di vestirsi da “maschio” e amare gli sport di contatto. Condannando e giudicando, in questo modo, anche gli uomini a cui piace stirare e le donne lesbiche che amano le gonne. Ma io? Io li confondo, li terrorizzo perché non sono “tutta lesbica” ma sembro un “mezzo uomo” lo stesso. E sono sposata con un uomo quindi un po’ donna devo esserlo, no? Mamme cose da mamme e papà cose da papà. E se sei a metà? Ah no! A metà non puoi essere: deciditi.